Un’azione nonviolenta: continuare a camminare

gennaio 15, 2013 at 6:04 pm

1- Esserci 
Camminiamo io e C. con passo svelto per raggiungere il villaggio di Tuba. Andiamo a visitare alcune famiglie, passeremo la notte con loro e domattina accompagneremo i ragazzi al pascolo con le nostre videocamere e i nostri passaporti. Dimostriamo con le nostre visite che la loro esistenza è importate, che non passa inosservata e che vale la pena di faticare per loro. Andiamo con passo svelto per arrivare prima del buio cercando di non farci notare troppo dai coloni dell’avamposto. Camminiamo lungo la strada più breve che non sia troppo vicino alle case colone. Passiamo a circa 50 metri dalla casa colona più esterna.
Sentiamo una voce che urla arrabbiata qualcosa di incomprensibile. E’ un colono. Ce l’ha con noi. Grida verso di noi. 
2- Non reagire d’istinto, ma scegliere di agire
Deviamo subito dalla nostra traiettoria verso una collina vicino dalla quale possiamo vedere la casa e il colono. Ci fermiamo. Ci siamo allontanati e siamo al sicuro. Il colono grida. Lungo questa strada più volte altri coloni come lui sono scesi con il volto coperto inseguendo i volontari e i pastori e lanciando sassi con le fionde e le spranghe. Potrebbe accadere anche oggi.
L’uomo grida sempre più forte. Capiamo una frase: “Do you want I kill you?”. No, certo che no, al massimo sei tu che ci vorresti uccidere per il solo fatto che siamo troppo vicini a quello che credi essere il tuo territorio.
Decidiamo di non tornare indietro. E’ importante per noi andare a Tuba e ci andremo.
3- Non agire da soli
Non possiamo agire da soli. Se vogliamo andare lo stesso abbiamo bisogno degli altri. Chiamiamo altri due volontari che ci raggiungono sulla collina da una strada più lunga e riparata. Intanto il colono ha preso un motorino e inizia a percorrere a tutta velocità la strada sassosa sulla quale, poco prima, camminavamo noi due, come a ribadirne il possesso. La velocità folle sulle buche e i sassi rischia di fargli rompere il motorino e la testa, ma quell’uomo continua ad andare avanti e ad urlare. Se gli altri ragazzi non avessero intrapreso un percorso più lungo per raggiungerci ora se lo sarebbero ritrovati proprio di fronte, così rabbioso e folle.
4- Non cedere alla violenza
Siamo in 4 ora sulla collina. Non rispondiamo al colono. Non lo insultiamo. Ci chiediamo solo come un uomo possa ridursi così. Non cediamo alla sua violenza, non le rispondiamo, ma scegliamo di non cedere nemmeno la strada. I ragazzi ci faranno da vedetta sulla collina, controllando che quest’uomo non ci insegua con il suo motorino o che altri non scendano per cercarci. Noi faremo un pezzo di strada riparato e poi risaliremo su quella strada per Tuba. Grazie ai due che ci fanno da vedetta, avremo il tempo necessario per scappare prima che sia troppo tardi se dovessero attaccarci i coloni.
5- Essere disposti a pagare un prezzo
Dopo il primo pezzo di strada fuori dalla vista dei coloni, inizia una breve salita, dove ci possono vedere e rincorrere. Siamo pronti a faticare e siamo pronti a rischiare. Corriamo, corriamo, corriamo. Guardo solo i piedi di C. cercando di non inciampare e cercando di respirare. Mi sembra di non avere più fiato. Penso “dai ce la puoi fare, finché non suona il telefono va tutto bene, ce la puoi fare”. E poi la discesa. E poi di nuovo fuori vista. Ormai è buio. Nemmeno gli altri volontari ci vedono più. Tutto bene per noi. Adesso tocca a loro tornare indietro al buio, anche loro corrono dei rischi e sono pronti a correre fino a casa.

Camminiamo al buio fino a Tuba. Credo di non avere più fiato per il resto della mia vita. Sono tutta bagnata di sudore e non mi potrò cambiare fino a domani pomeriggio quando rientrerò a casa. Questi vestiti saranno anche il mio pigiama per questa notte. Le gambe mi fanno male e dentro di me tanti sentimenti fanno la lotta. Sono arrabbiata per quello che ci ha detto il colono. Sono arrabbiata perché mi ha fatto correre. Sono soddisfatta di avercela fatta e di non aver cambiato strada. Sono avvilita dal fatto che un uomo possa minacciare di morte due sconosciuti, solo perché ritiene che non abbiamo il diritto di passare vicino a casa sua: sulla terra che ha preso da altri, senza chiedere il permesso, contravvenendo alle stesse leggi del suo Paese.
Quello che ho dentro lavora, si muove, mi affatica. Per me è successa una cosa inconsueta. Non sono abituata a questo.

Ora capisco cosa significhi cedere un po’ di terra alla prepotenza e alla violenza.
La nostra è stata una piccola azione nonviolenta, ma quello che per me è un fatto eccezionale per la gente di qui è quotidianità.
Se continuare a camminare è un’azione nonviolenta, qui le persone la compiono ogni giorno.
Continuano a camminare i bambini che vanno a scuola passando vicino alla colonia.
Continuano a camminare i pastori con le loro pecore che pascolano sotto quella casa.
Continuano a camminare su quella strada tutti gli abitanti dei villaggi vicini quando hanno bisogno di un medico.
Continuano a camminare le persone che scelgono questa via per andare in città.
Continuano a camminare, insieme, senza cedere alla violenza, senza rispondere con la violenza,     rischiando tutti i giorni.

Arrivati a Tuba si ride della corsa che abbiamo fatto e del nostro fiatone con la numerosa famiglia di Adam che ci ospita per la notte. Pochi minuti prima eravamo preoccupati per la nostra incolumità, ed ora scherziamo.
Così è la vita qui. Si passa improvvisamente da momenti familiari di intimità e serenità a momenti di tensione e di grande rischio. Ma dalle persone che abitano questa terra ho imparato che la vita non è meno bella per questo. Quando il pericolo c’è, bisogna essere pronti, lucidi e consapevoli, e quando il pericolo non è imminente si ride e si gode della bellezza della vita.
Mi vengono in mente le parole di Etty Hillesum, perseguitata e uccisa nei campi di concentramento, quando realizza quale sarà il suo destino di ebrea: “So tutto quanto… eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto… Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo in cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita, e insieme, di accettare ugualmente la vita.”

Ora si dorme. Domani si accompagnano i pastori vicino alla colonia e poi si torna indietro, per quella stessa strada.
Domani continueremo a camminare, con i bambini, con i pastori, con le famiglie … inshalla mish mushkila!! (Se Dio vuole, nessun problema!)