DRepubblica: I diari di Havat Ma’on

giugno 16, 2010 at 12:31 pm

CONFLITTI/1 Una settimana nella vita di un colono israeliano. L’insediamento (illegale), la comunità, la famiglia, la religione, i (non) rapporti con i palestinesi. E tutte le incomprensioni del mondo

di Eva Grippa
Foto di Yonathan Weitzman

Ha trentasette anni e da dodici vive ad Havat Maon, una delle colonie illegali nella Cisgiordania occupata. Il suo nome è Yeosaphat Thor, ma gli amici lo chiamano Fatti: alto e robusto, biondissimo, sguardo penetrante incorniciato dai peot, i capelli ai lati del volto che gli ebrei ortodossi come lui lasciano crescere in lunghi boccoli per rispetto del Levitico 19:27. Yeosaphat è uno dei circa 300mila coloni che vivono insieme alle loro famiglie in questa terra polverosa. Un luogo che si potrebbe definire “dimenticato da Dio”, se non fosse che qui ci vogliono rimanere proprio perché convinti che Dio non li abbia affatto abbandonati, anzi, che dia loro la forza di continuare a combattere e resistere per non cedere nemmeno una manciata della terra d’Israele a un altro popolo. Altre persone, altre famiglie, altra fede. Havat Maon è nell’area C, nome concordato durante i fallimentari Accordi di Oslo (1993) e utile a definire la porzione di territorio che sarebbe dovuta tornare ai palestinesi. La comunità è uno degli insediamenti al centro delle attenzioni, degli scontri e delle trattative, compresa nei negoziati di pace (poca, finora) che segnano l’agenda (e le guerre) nel Medio Oriente. Yeosaphat, i suoi amici e le loro famiglie sostengono di voler rimanere qui perché secondo la Torah è la terra di David, che si nascose in questi luoghi per sfuggire alla follia di Saul prima di fondare il suo regno a Hebron, venti chilometri a nord.

Storia, religione, cultura, politica: tutto si confonde nelle vicende che riguardano i coloni. Per capire l’ostinazione e l’attaccamento, la resistenza e sì, anche la ricerca della felicità di queste persone, abbiamo deciso di provare a farci raccontare la quotidianità di Yeosaphat. Giorno dopo giorno. Inseguendolo telefonicamente, abbiamo provato a comporre un diario da Havat Maon, che spiega anche le difficoltà di comunicazione all’origine dei conflitti. 1. Interferenze Milano, ore 11.30. Havat Maon, 12.30. Dopo molti tentativi a vuoto. “Halo?”, risponde una vocetta troppo femminile e troppo giovane per esser quella di Yeosaphat. La figlia, suppongo: non più di sei anni. Passa la cornetta al padre, che tuona: “I’m busy”. Le prime parole non sono incoraggianti. “Non parlo con i giornalisti. Non mi fido”. Secco e duro, come la terra che occupa. Di lui sappiamo che è uno dei personaggi più noti di Havat Maon, dove vivono anche i suoi fratelli Gilad e Sinaï. E sappiamo anche che il suo amico, Dov Drivlin, è stato ucciso in uno scontro armato con i palestinesi, non molto tempo fa. Yeosaphat è l’unico colono disponibile a parlare con noi. Si fa per dire. Provo a insistere, ma non ottengo risposte. Sembra esserci un’interferenza, culturale più che telefonica, a moltiplicare la distanza tra Milano e Havat Maon. “Bye”. Io rimango appesa alla cornetta: una voce metallica forse mi avverte (in ebraico, quindi non posso far altro che supporre) che la chiamata è stata interrotta. 2. Voce metallica Ore 18.30 (locali). Yeosaphat dovrebbe rispondere. Ci eravamo accordati, dopo ulteriori ricerche e trattative, per quest’appuntamento. Forse per questo ha staccato il telefono. Me lo suggerisce la stessa voce metallica di ieri. 3. Famiglia e diffidenze Ore 19.40. Risposta al terzo squillo, ma prima della voce di Yeosaphat arriva il belare di una pecora. “Sono in mezzo al gregge”, fa lui. Poi urla un nome – forse quello di un agnello in fuga – e torna alla nostra (si fa per dire) conversazione: “Cosa c’è?”. Io gli ripeto, in una frase, una domanda, le nostre intenzioni: “Voglio sapere qualcosa di te, della tua famiglia e della vostra vita ad Havat Maon”. L’ho convinto ad aprirsi, parlare, raccontarsi? Non so, però risponde alle domande, pur con qualche problema di comprensione del mio inglese: mi ritrovo a scandire le parole in modo esagerato. Riassunto delle sue risposte: Yeosaphat è sposato, ha cinque figli, è nato in queste terre e vive nell’insediamento da dodici anni, mantiene la famiglia con l’allevamento di bestiame e lo scambio di prodotti agricoli con gli altri coloni. Conduce una vita semplice, essenziale. Quando gli chiedo se non sia difficile vivere con la moglie e soprattutto i bambini in un luogo di frontiera e pericolo, risponde: “Questo è il nostro posto, nella natura. E io tengo la mia famiglia lontana da qualsiasi marciume. La proteggo”. Sole, pascoli, alberi da frutta. Per un istante sembra tutto perfetto. Stavolta chiedo a me stessa, più che a Yeosaphat, se non sia giusto cercare qui la felicità per sé e per la propria famiglia. Ma la banalità della risposta mi abbatte: perché la felicità di Yeosaphat è inversamente proporzionale a quella del suo vicino palestinese. 4. Note a margine Lo squillo sorprende (ormai non più di tanto) Yeosaphat al pascolo. Gli chiedo di raccontarmi le vicende di Havat Maon. Fondata nel 1997, due anni dopo è stata evacuata dall’esercito israeliano, ma i coloni sono tornati, alcuni dal vicino avamposto “legale” di Maon, e hanno ricostruito le proprie case, abitazioni di legno e pietra, circondate dagli alberi. Attualmente si tratta di un piccolo insediamento: 25 famiglie e un centinaio di persone in tutto. Durante il giorno le donne si prendono cura dei bambini e aiutano gli uomini con le bestie, oppure nei campi. Dall’impazienza con cui Yeosaphat mi risponde intuisco che si aspetti, prima o poi, una domanda di troppo. Una di quelle che gli farebbero (e gli faranno) interrompere la conversazione di botto. “La mia casa? È solida, e bella. L’ho costruita io, certo. Sono case come tutte le altre. Tetto, pareti…”. Io però farei fatica a definire “case come tutte le altre” quelle che periodicamente l’esercito del mio stesso paese sgombera e abbatte. Relativismo culturale. Distratta da questo pensiero perdo il contatto con lui che già parla in ebraico con qualcuno. “Ci sentiamo domani”. 5. Shabbat Oggi Yeosaphat non può usare il telefono. Come tutti, ad Havat Maon, lui è un ebreo ortodosso e assolve a tutti gli obblighi religiosi, compreso il bagno rituale, mikvah, che si celebra ogni mattina prima della preghiera in pozze scavate nel terreno. Immagino lui e la sua comunità avvolti nei talled e rifletto sul significato del termine Shabbat: smettere. Per empatia, spengo il computer e smetto di lavorare anch’io. 6. Sintesi Solito squillo, solita voce. E solita risposta: “Cosa c’è, ancora? Ti ho già aiutata”. Ok, ma vorrei sapere per esempio come hai trascorso lo Shabbat. Silenzio. E poi. “Come in tutte le parti del mondo: in casa con i bambini. Si legge e si prega”. Fine. 7. Epilogo Ore 12.00. “Cos’ho fatto ieri? Le solite cose”. La laconica risposta di Yeosaphat rimanda a un’immagine di calma e di imperturbabilità che però stride con la cronaca. A cominciare dai frequenti scontri con i palestinesi del vicino villaggio di At-Tuwani. Forse non turbano la quotidianità di Yeosaphat, o forse è proprio questa la sua quotidianità: la violenza che diventa ricorrente abitudine quasi quanto la pastorizia. In fondo, i palestinesi di At-Tuwani vivono a circa 500 metri da qui, separati solo da cinque minuti di cammino in una stretta valle di ulivi e frutteti. Poco più lontano, c’è quel muro che è simbolo di tutto ciò che è andato storto, in questi anni, dentro e fuori Israele. Ma anche le risposte possono costruire muri, ostacoli, barriere. “Tenermi in contatto con il mondo? Non mi interessa, i cellulari servono per chiamarci tra noi, ma non abbiamo televisioni né computer. Non ho bisogno di quella spazzatura”. Chiedo a Yeosaphat di cosa abbia bisogno ad Havat Maon. Ma lui non afferra il concetto di cose “necessarie”, provo a spiegarmi ed ecco, la sua prima risata. Di scherno, però: “Immagino che per te siano “necessarie” solo pizza e pasta!”. Eccoci qui, ognuno barricato dietro i propri steccati culturali, gli stereotipi e i luoghi comuni per offendere l’altro: se io me lo vedo con la fionda (o il fucile) sempre pronta contro i palestinesi lui che mi deride come italiana che pensa solo a mangiare. Pizza o pasta, appunto. E meno male che ha dimenticato il mandolino. Arrivo a chiedergli dei rapporti con quelli di At-Tuwani. “Nessun rapporto”, si irrigidisce. Gelo, di colpo e di nuovo. Scarico le domande, tutte, adesso. Perché Havat Maon viene considerato un avamposto illegale? Dicono che queste terre siano palestinesi, non vostre, tu cosa rispondi? E cosa pensi di chi vuole “congelare” le colonie per trovare la pace? Prevedibile silenzio. Poi: “Devo chiudere la telefonata, I’m busy”. Peccato, avevo ancora una domanda, e riguardava il giudizio di Yeosaphat sulle posizioni di Obama.