E’ solo un ragazzo di 21 anni

maggio 18, 2013 at 6:58 am

Giornata della resistenza. Liberazione d’Italia. Resistenza contro il fascismo. Oggi resistenza contro l’occupazione mentale, gli strumenti di propaganda, i metodi manipolatori per sedare gli spiriti, acquietare gli animi.
Sono in Israele, in un kibbutz al confine con Gaza, a solo 400 m di distanza dall’inferno. Qui è tutto calmo (anche se solo tre giorni dopo hanno bombardato in tre differenti punti della striscia), quieto e silenzioso.

Alcuni lo definiscono ‘noioso’, io solo apparentemente pacifico. Eppure qui la gente ha paura. Ogni casa possiede un mini-bunker, in cui rifugiarsi in caso di attacco. Solo sette secondi di tempo per mettersi al riparo dai Qassam. I bambini sono traumatizzati, i genitori temono per le loro vite. Gaza è solo a un lancio di missile, al di là della fance elettrica, dove ci sono “very beautiful beaches”.
Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con alcuni soldati: erano simpatici, ospitali, accoglienti, felici di poter parlare con due giovani europei liberi dal servizio di leva, estranei alla noiosa quotidianità del kibbutz. Mi chiedo se avrebbero reagito allo stesso modo se avessero saputo chi siamo, cosa facciamo e perché siamo in questa terra. Abbiamo chiacchierato a lungo, alternando siparietti simpatici a curiosità interessata, domande specifiche sulla loro vita, sul conflitto, sull’essere soldati alla loro età. Solo uno di loro parlava inglese, un simpatico chiacchierone che come molti 21enni pensa di aver già capito tutto del mondo e della vita. Non è un ragazzo ingenuo, ottuso o arrogante, ‘è solo un ragazzo di 21 anni’. Quanta verità in questa semplice e apparentemente banale considerazione. Non c’è nient’altro da capire. Non è una persona cattiva e malvagia, sebbene avesse partecipato all’ultimo attacco su Gaza e sia convinto che i civili palestinesi siano morti perché Hamas li ha usati come scudo. Non è un mostro. Forse è solo un figlio della banalità del male. Non è neanche un manichino, manovrato da potenti politici e generali israeliani. E’ solo un essere umano. Lati buoni di luce e cattivi di buio lo rendono tale, come tutti. ‘E’ solo un ragazzo di 21 anni’. Un giovane israeliano che come molti altri blocca la sua vita per tre lunghi anni, mettendosi al servizio del suo Paese, eseguendo ordini cui non pensa, la congela in attesa della libertà. Gli chiediamo perché lo faccia e con molta ingenuità lui ci risponde: “I have to”, perché altrimenti che fine farebbe Israele? perché non c’è altra scelta (o almeno lui non la conosce). Vive bramando la libertà, che scambia per sballo. Perché fare il soldato “is a shit, but I have to”. Immagina la sua libertà come un viaggio in Thailandia e in India, dove sopprimerà i suoi ricordi sotto l’effetto allucinogeno di ciò che lui chiama “Hoffman”, lsd, trip, cartoni. E poi aggiunge: “I tell you why: because we have to”.
Poi parla dei palestinesi, dice che non li odia, ma che Hamas è pericoloso e Israele cerca solo di sconfiggere i terroristi. “We are good”- dice. Quando Alex prova a contraddirlo lui subito ribatte: “it’s not your conflict”.
E’ vero, non è nostro, non possiamo capire, non possiamo nemmeno immaginare come possa sentirsi e cosa possa provare un ragazzo di soli 18 anni costretto a congelare la sua vita per due o tre anni, convinto di doverlo fare perché ‘they have to’, anche se odia i coloni, pazzi e pericolosi tanto quanto i terroristi di Hamas. Non possiamo capire cosa significhi riporre le proprie speranze di libertà in un viaggio allucinogeno per sopprimere i ricordi, rimuovere i traumi. E mi sento colpevole per tutte le volte che li ho giudicati, chiedendo perché non rifiutassero e perché giustificassero le loro azioni dietro lo scudo dell’eseguire ordini. E allora ripenso ai miei 18 anni, quando dovevo solo decidere che cosa studiare e dove, quale città potesse rispecchiare i miei sogni di libertà quale potesse offrirmi più alcol e balotta col minor sforzo possibile. Quali erano le mie consapevolezze? Non ne avevo neanche su me stessa, come ho potuto pretendere che loro ne avessero su un conflitto in cui sono nati e cresciuti ascoltando sempre e solo un’unica voce? Sono solo dei bambini quando li buttano in mezzo, quando dicono loro che nell’esercito troveranno degli amici, qualcuno cui affidarsi. E di nuovo ripenso ai miei 18 anni, ai tre anni vissuti a Bologna dove la quotidiana scelta più ardua era se andare a lezione o poltrire, se ubriacarsi o rimanere a casa. Loro invece si ritrovano in mezzo a basi militari, con poche opportunità di scelta, ai pericolosissimi confini con il mondo arabo (lo chiamano ancora così, è impressionante!), dotati di un’arma e un pensiero fisso in testa: avere la responsabilità della sicurezza del proprio Paese. Pensaci bene e rileggi lentamente: a soli 18 anni si ritrovano a portare sulle loro fragili spalle il peso della responsabilità di un conflitto indesiderato e la conseguente salvezza del loro Paese. Io invece solo la responsabilità di studiare, laurearmi in tempo e fingere di condurre una vita tranquilla, senza alcol, sesso e droghe. Banalmente avevo solo la responsabilità di tornare salva a casa di notte dopo una sbronza.
E continuo a ripetermi che è solo un essere umano, ‘solo un ragazzo di 21 anni’ cui hanno rubato un pezzo di gioventù lungo tre anni. E provo dolore per la sua inconsapevolezza. Ma non lo giudico. Mi rendo conto solo di essere privilegiata, perché nessuno mi obbliga a percorrere strade indesiderate, perché la sua situazione e quella del suo paese si dispiega chiara ai miei occhi, perché la mia sofferenza è frutto della mia consapevole volontà di sapere e di vedere.
La serata si conclude con una semi dichiarazione di quello che facciamo. Gli spieghiamo che siamo lì per raccogliere storie israeliane sul conflitto, per conoscere anche la loro versione, dopo aver raccolto e ascoltato numerose volte quelle dei palestinesi. Lui ci chiede: “Who do you believe the most?”. Io provo ad essere diplomatica e dico che non c’è una verità. Ma lui mi stupisce aggiungendo: “If I talked to a common arab who suffers for the conflict, I would believe him, you know why? because he didn’t choose it”.
Un seme è stato buttato, sperando che le piogge naturali lo facciano crescere e fiorire, nonostante gli agenti chimici che lo avveleneranno in Thailandia.
Io intanto realizzo che un’occupazione ben più insidiosa e intima mina l’esistenza dei comuni israeliani, vittime e contemporaneamente carnefici del conflitto, non perché banali, ma solo perché esseri umani. Così resisto all’occupazione che tenta di insidiare anche la mia mente, sotto forma di pregiudizi, odio, presunzione, rassegnazione e indifferenza.

Angela